CARTOLINE, TRAJONE E SUPERSTIZIONI

Questa cartolina di Matteo Di Carlo (foto a sinistra) credo sia l'unica testimonianza illustrata di una poesia dialettale dedicata alla fracchia. Forse l'unica in assoluto impressa su cartolina postale.
Nel mio ricordo di adolescente la vedo in dose massicce nei tabaccai e in altri posti pubblici, soprattutto nei periodi pasquali. Pensavo allora che l’Autore fosse una specie di istituzione del nostro paese, senza immaginare affatto che la divulgazione della cartolina era soltanto una iniziativa personale dell'Autore.  
Degli altri poeti dialettali naturalmente non conoscevamo nulla poiché non vi erano state stampate altre cartoline simili. Nessuno evidentemente aveva ritenuto utile imitare l’esempio di Matteo Di Carlo. Nulla sapevamo, per esempio, di Joseph Tusiani, - emigrato in America - Francesco Paolo Borazio o di Giovanni La Selva etc. perché le loro cose erano discusse e soltanto nei circoli o, al limite, custodite nella biblioteca pubblica di Corso Giannone. Nessuno aveva notizie delle loro opere perché nessuno degli Autori si era preso l’impegno di divulgare i risultati delle loro ricerche o delle loro passioni letterarie ad un pubblico più eterogeneo. Men che mai i presidii scolastici che, ieri come oggi, non hanno mai avvertito il bisogno né di indagare né tantomeno di promuovere radici e fatti letterari contemporanei del proprio territorio, come, d’altra parte neppure erano obbligati a farlo, dovendo rispondere soltanto ai rigidi programmi imposti dal ministero. Quindi la ricerca culturale, storica e popolare era terreno riservato soltanto a poche persone i cui risultati spesso rimanevano in ambito circoscritto nella loro comunità.
Nonostante circolassero ovunque frammenti di voci relative al racconto popolar fantastico, in vernacolo, “Lu Trajone” il testo integrale non era stato ancora pubblicato né le varie autorità culturali del posto, come accennato sopra, si erano prodigate a sollecitare un interessamento da parte di privati o delle istituzioni. Si trattava dopotutto di un racconto di ingegno formidabile per le tante trame e i riferimenti allegorici contenuti nel testo, intrecciate sullo sfondo di una valle molto familiare nel nostro immaginario collettivo.Francesco Paolo Borazio, il cavapietre autodidatta, che aveva scritto il poema epico sulle pagine di un quadernetto di scuola, intendeva non solo raccontare una storia di amore disperato, ma anche di mettere in evidenza, attraverso il racconto dei due fuggitivi innamorati, i vizi e le virtù di una comunità chiusa tra le montagne di una regione impervia. Lu trajone, il dragone mostruoso diventa quindi la metafora dei nostri incubi comunitari accanto alle nostre paure ancestrali che da sempre ci impediscono di guardare oltre gli orizzonti, che peraltro ci sono preclusi fisicamente. Credo che questo avrà pensato lo scrittore sammarchese quando ha messo nero su bianco le vicende di Vela e Seppantonio, svelare cioè il carattere peculiare (direi fondante) che ci appartiene e ci contraddistingue come comunità. Non male per uno scrittore autodidatta che ha appreso sui pochi testi scolastici il necessario che gli è servito per mettere in cantiere quest’opera dai contorni paradossali illuminati oltremodo da un linguaggio semplice soltanto in apparenza quando, al contrario, investe d’autorità una scrittura e un mondo popolari in cui la parola dialettale conquista il centro della scena avendole affidato un compito, uno stile e una forma che serviranno alle generazioni successive per confrontarsi su basi strutturali condivise. Una novità e una modernità di sorprendente attualità.
Francesco Paolo Borazio ( 1918 - 1953 )
D’altra parte alcune schegge del racconto di questa figura mitologica, provenienti dalle nebbie di un passato arcaico sono sempre circolate in paese accompagnando nella paura e nel terrore intere generazioni di sammarchesi. Il dragone come spirito maligno invincibile, posto a guardia delle nostre paure ancestrali è sempre stato il golem a cui abbiamo affidato le nostre superstizioni e i nostri timori peraltro nei confronti di un essere orribile che nessuno aveva visto mai ma che ugualmente incuteva spavento e terrore. Un demone fuggito dall’inferno contro il quale un bel giorno il popolo si ribella, diventa temerario e gli dà la caccia come nel finale di un film gotico, spinto da una forza disperata, allo scopo di annientarlo. 
Una comunità intera si arma quindi di forconi e parte alla caccia del "il serpente" che “Teneva sette pede cu’ sett’ogna ammulate e pezzute come spate” allo scopo di annientarlo e salvare la giovane coppia che il mostro aveva rapito. Il popolo si appropria del suo destino, diventa temerario e sfida apertamente il mostro. Un finale degno di un colossal d'altri tempi. Ma giunti nella valle di Stignano, il luogo dove si sospetta che il dragone dimori, non troveranno traccia del terribile mostro tentacolare con sette teste, bensì i giovani ragazzi impauriti che dovranno raccontare tutta la loro verità. L’epilogo avrà un retrogusto amaro, la tragicomica vicenda de lu trajone dimostrerà tutta la sua inconsistente e disarmante fragilità e ciascuno farà ritorno al proprio quotidiano.
Per avere una conoscenza organica del poema vernacolare dobbiamo aspettare il 1977 quando i giovani professori Antonio Motta, Cosma Siani e Michele Coco, con la complicità di Filippo Pirro, illustratore preciso e allegorico, e la presentazione dell’accademico Francesco Sabatino, ne appronteranno una edizione completa, inaugurando così anche una collana editoriale molto proficua. Nessuno sino a quel momento ci aveva mai pensato, neanche sotto forma di cartolina illustrata con stralci testuali e disegni appropriati tali da rendere seducente una storia d’amore e di coraggio vissuta tanto tempo fa in questa valle incantata.
Luigi Ciavarella
 




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